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Ho conosciuto Silvia su una minuscola isola del Mar Baltico, dove l’estate scorsa abbiamo condiviso un’esperienza unica -ma anche faticosa- all’interno di un progetto di ristorazione sostenibile. Silvia affronta tutto col sorriso, non si tira mai indietro, fa tesoro di ogni momento. Conserva lo stupore ed il candore di una bambina e un’umiltà ormai rara… Ci unisce la medesima passione per un cibo che vada oltre il gusto, ma che sia rispettoso della natura e che mantenga un profondo legame con il territorio e le tradizioni. Un cibo che permetta di riscoprire dimensioni come l’attesa, il silenzio, lo scambio, il movimento, l’esplorazione…

Ringrazio di cuore Silvia per averci resi partecipi della sua profonda conoscenza sul cibo selvatico, frutto della sua instancabile curiosità e ricerca nei suoi studi delle Scienze Gastronomiche (è dunque grazie all’Università di Pollenzo  che i nostri cammini si sono incrociati)! Nella foto qui sopra, una pianta di senape di mare, che Silvia ha avuto la cura di farmi scoprire.

 

Abbiamo mai pensato quante piante commestibili calpestiamo quando camminiamo in un prato?

Ci siamo mai chiesti perché le persone acquistano quantità spropositate di cibo al supermercato quando potrebbero facilmente trovarlo nel giardino di casa loro?

Domande di questo genere fanno pensare, fanno riflettere riguardo alle odierne problematiche legate al cibo. Una società in cui non ci sono più gusti genuini, in cui tutto è costruito e modificato, in cui ogni minuto in più speso per qualcosa è considerato tempo perso, in cui si consuma e si spreca senza neanche chiedersi il perché. Una società come questa ha bisogno di fermarsi, di considerare ciò che già ha, di partire dalle piccole cose che possono portare grandi cambiamenti. Una di queste è il cibo selvatico.

Il cibo selvatico è presente in ogni angolo del nostro pianeta: in ogni campo, sentiero, prato, bosco. La vegetazione che ricopre la nostra terra è una fonte inesauribile di ricchezza, dove ogni elemento esiste in funzione di altri.

Nei secoli passati la società ha teso a separare natura e cultura, selvatico e coltivato. Le ben conosciute “erbacce” dei nostri orti hanno sempre avuto connotazioni negative come “intruse” o “piante nate nel posto sbagliato”, testimoni del fatto che vengono considerate ancora oggi un ostacolo all’agricoltura. Ma se invece cambiassimo punto di vista?

Il foraging (l’attività di procurarsi il cibo selvatico) e l’agricoltura sono due attività strettamente connesse: così come le civiltà di cacciatori-raccoglitori si appoggiavano ai prodotti agricoli che coltivavano o commerciavano con altre comunità, allo stesso modo società basate sull’agricoltura hanno spesso utilizzato il cibo selvatico per arricchire una dieta monotona basata su pochi alimenti altamente calorici. La quotidianità di queste attività andò a formare quella che noi consideriamo la conoscenza tradizionale, ovvero tutti quei saperi legati alle erbe selvatiche, bacche, funghi e al loro uso culinario e terapeutico. In molte culture l’uso delle erbe è rimasto un pilastro principale della tradizione gastronomica e in altre è andato completamente perso.

In diverse diete in Europa, il cibo selvatico ha giocato un ruolo molto importante nel bilanciamento dei nutrienti, garantendo l’apporto di micronutrienti necessari per la salute dell’organismo. Un esempio che ci è alquanto familiare è la dieta mediterranea (di cui la cucina italiana è un pilastro fondante) che è stata dichiarata patrimonio dell’UNESCO dato il suo enorme valore per la salute umana derivante dal giusto bilanciamento di frutta, verdura, olio d’oliva come fonte principale di grasso, latticini, pesce e una piccola quantità di carne e uova. Tuttavia, una parte nascosta della dieta mediterranea, molte volte  tralasciata dai nutrizionisti, è costituita dalle verdure e erbe selvatiche, spesso utilizzate in accompagnamento ad altri ingredienti che, come dimostrano molti studi fitofarmacologici, hanno un ruolo fondamentale come antiossidanti nella prevenzione le malattie croniche.

Cibo e medicina sono fortemente legati e in molte culture l’uso particolare di alcune piante selvatiche è strettamente connesso alla loro azione medicinale. Nell’antica cultura greca, la dieta era un vero e proprio modo di vivere e includeva mangiare, dormire, fare sport e attività sessuale (dal greco diaita regime di vita). Il cibo e il benessere fisico erano due elementi fortemente interconnessi, di fatto il cibo come piacere corrispondeva al cibo come salute (era buono ciò che faceva bene). Solo nel XIX secolo la gastronomia, in termini di piacere, si divise dalla dietetica, come medicina e cura del corpo.
A questo riguardo, la percezione greca della vita e del cibo può essere paragonata allo stile di vita del foraging. La raccolta del cibo selvatico implica la ricerca, la pazienza, il tempo e l’uso dei sensi. Tutti questi aspetti sono legati al movimento: non è una raccolta statica in un determinato campo, bensì dinamica, passando da un posto all’altro, seguendo le regole della natura. Da qui derivano i benefici psicofisici: i muscoli sono costantemente usati, la mente è attivata in modo diverso, verso l’uso attivo di tutti i sensi e il contatto con la natura contribuisce al benessere mentale.

Tornando indietro di diversi secoli, la natura era parte integrante della vita di tutti i giorni delle persone. Raccogliere le erbe che crescevano ai bordi dei campi coltivati, andare nei boschi alla ricerca di bacche, frutti, prodotti selvatici era all’ordine del giorno e ogni attività di sussistenza dipendeva fortemente dal benessere della natura, che veniva costantemente tutelata con pratiche di manutenzione per conservarne la biodiversità. I bambini aiutavano le mamme nella raccolta, preparazione e conservazione dei prodotti selvatici, rendendosi partecipi di una conoscenza così vasta e radicata nel tempo.
Fu poi nella seconda metà del XX secolo che vi fu un’incredibile perdita di conoscenza legata al cibo selvatico, principalmente dovuta alla rivoluzione verde e alla modernizzazione dopo la seconda guerra mondiale. Nuove invenzioni nel campo dell’agricoltura, come pesticidi ed erbicidi, portarono la quasi totale scomparsa della vegetazione selvatica attorno ai campi coltivati. Inoltre uno stile di vita differente portato dalla modernizzazione cambiò totalmente le priorità delle persone: la possibilità per le donne di lavorare, una grande migrazione dalla campagna alla città e l’apparizione dei “confort foods”, cibi già pronti per essere consumati, portò a una rapida diminuzione del tempo dedicato alla raccolta e trasformazione dei prodotti selvatici e alla graduale perdita di conoscenza. Valori quali tempo, attesa, contemplazione e rispetto furono valicati dalla velocità e sovrapproduzione, che divennero i punti cardine del nuovo secolo. Si perse la connessione con la natura e le persone divennero sempre più dipendenti dai prodotti del mercato.
Nel nostro secolo stiamo assistendo a una riscoperta del cibo selvatico, stimolata da una corrente naturalista sviluppatasi in contrapposizione all’industrialismo e dalla ricerca di cibi più salutari, con la comparsa di diverse guide, compagnie, associazioni che si occupano di recuperare e diffondere la conoscenza. Molti ristoranti d’elite hanno iniziato a utilizzare il cibo selvatico come un mezzo di differenziazione. Ciò nonostante questa riscoperta è accompagnata da una visione fortemente utilitaristica e elitaria, per cui l’accesso è riservato a pochi.

Cosa possiamo fare noi?

Seguire il ritmo della natura aiuta a radicarci in un mondo ormai senza radici, a riconnetterci con la vera dimensione della vita, che nasce e dipende dalla natura. Conoscere i tempi della natura, capire le sue necessità, i suoi limiti è un incredibile mezzo per diventare più consapevoli di ciò che ci circonda.

Molte volte parlare di cibo biologico, locale e stagionale può essere un discorso troppo generico e astratto. Il foraging è invece il modo migliore per mettere in pratica questi concetti: non c’è legame più stretto col territorio che attraverso la raccolta di prodotti selvatici.
Fermandosi a osservare la natura, comprendendo i suoi meccanismi, ci rendiamo conto di come il rispetto per l’ecosistema naturale e la sostenibilità ambientale siano condizioni necessarie per la conservazione della biodiversità selvatica. Dietro a una raccolta sostenibile ci sono numerosi passaggi che devono essere presi in considerazione per garantire la massima resilienza dell’ecosistema e ridurre il più possibile gli sprechi.

Tutto parte dall’attenta osservazione della natura e delle sue risorse: per ogni pianta selvatica identificata è necessario capire dove cresce, quanto tempo impiega a rigenerarsi una volta raccolta e il periodo dell’anno in cui è più abbondante. Durante la raccolta è importante selezionare solo le piante migliori, lasciando le altre (sarebbe inutile poi doverle buttare via) ed evitare di raccogliere tutte le piante in un solo punto, rischiando di lasciare poi spazio alle piante invasive che cresceranno al posto. Il modo migliore è muoversi e raccogliere piccole quantità in punti diversi per preservare il loro habitat naturale e agevolarne la ricrescita. Dopo la raccolta, le piante devono essere conservate in frigorifero per evitare appassimenti o ingiallimenti.
Si tratta quindi di ottimizzare la raccolta e trovare il giusto equilibrio tra azione umana e risposta della natura, con la consapevolezza che vi sono limiti oltre ai quali l’interazione smette di funzionare. In questo modo non solo si previene ogni tipo di danneggiamento e sovra sfruttamento, ma si promuove anche un ricambio e una ricrescita delle piante, che se abbandonate potrebbero rischiare la scomparsa.

Oggigiorno la comodità ha invaso la nostra quotidianità, rendendoci soggetti passivi. Il nostro ruolo è quello di diventare protagonisti attivi della nostra vita:  ricominciare a camminare, a capire le vere distanze, a osservare la natura, a scoprire cosa cresce attorno a noi, a comunicare con le persone e scambiare le conoscenze per creare un legame nuovo e più profondo con la nostra madre terra.

Prendendo in esame i più grandi problemi che affliggono il nostro secolo, tra cui la crescita della popolazione, il cambiamento climatico e la perdita di biodiversità, un sistema basato sull’integrazione del cibo selvatico può costituire le fondamenta di un modello gastronomico più sostenibile, in cui vengono attivate diverse dinamiche. Il suo grande valore nella costruzione di un’identità,  intensificazione del legame col territorio, diversificazione della dieta e conservazione della biodiversità è il punto di partenza per un approccio diverso, un modo per entrare in contatto con un’altra dimensione, ormai dimenticata dalla nostra società, dove dominano l’attesa, il silenzio, l’attenzione e il rispetto.

Il cibo non è solo agricoltura, non è solo produzione, non è solo cucina. Il cibo può essere sotto i nostri piedi quando meno ce l’aspettiamo.

                                                                                                                                                              Silvia Sibille

“Sono una ragazza di montagna, nata e cresciuta in mezzo alla natura. La mia passione per il cibo è nata grazie alla mia famiglia, alla loro attenzione verso ogni momento dedicato alla preparazione del cibo: dalla coltivazione, alla cucina, alla condivisione del pasto. Sono cresciuta correndo nei prati, camminando in montagna, lavorando nell’orto e scivolando sulla neve. Amo la mia terra tanto quanto amo viaggiare e esplorare nuovi luoghi, sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo da scoprire. Nel 2014 mi sono iscritta all’Università di Scienze Gastronomiche, che ha drasticamente cambiato la mia vita portandomi alla scoperta di un mondo diverso. Da qui deriva anche la mia passione per il cibo selvatico: risultato del mio amore verso la natura e della voglia di conoscere nuovi gusti e combinazioni.”

Silvia all’opera: a raccogliere senza calpestare, con infinita pazienza a selezionare accuratamente e a guarire, a contatto con quello che lei ama di più: la natura, la libertà, la semplicità…

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